La mattina dopo veniamo svegliati da una delle coinquiline che, ignara degli avvenimenti della sera prima, appena entrata in cucina urla “IS THAT A F*CKING BENCH?”.
Cominciano i problemi, lei e altri due coinquilini che non erano con noi la sera prima (siamo un botto, lo so) si lamentano, hanno paura che il pub allerti la polizia per la scomparsa della panchina e che finiremo nei guai. Noi siamo abbastanza tranquilli, ma dopo una giornata di discussione, capiamo che non vale la pena tenere in casa una mela della discordia tanto imponente: dobbiamo sbarazzarci della panchina. E veniamo anche obbligati a riportarla al suo posto. Tirate Tom Cruise fuori dal congelatore perché abbiamo una nuova missione impossibile.
Riusciamo a rimuoverla dall’appartamento, con le lacrime agli occhi, e ci avviamo verso il pub escogitando piani e sotterfugi per rimetterla a posto. Sarà la delusione, sarà che la sera prima eravamo carichi, ubriachi e con tutte le endorfine e dopamine in circolo nella quantità giusta, sarà che abbiamo pianto così tanto che il legno della panchina ha assorbito le lacrime, ma durante quel viaggio di ritorno la panchina pesava il doppio. A metà strada succede quello che non doveva succedere, si ferma al nostro fianco una macchina della polizia. Gelo. Abbassano il finestrino, chiedono spiegazioni sulla panchina, noi non abbiamo nemmeno la lucidità di posarla, rispondiamo tenendola ancora sospesa, mentre il sudore che colava abbondante rischiava di farci perdere la presa.
Farfugliamo qualcosa sull’averla appena comprata, ma sappiamo tutti che suonava poco credibile. Il poliziotto si fa più serio, e chiede dove l’abbiamo presa. Quello di noi più vicino alla volante si gira verso di noi ed esibisce un perplesso “ma infatti, dove l’abbiamo presa?”.
Si sta scendendo nel ridicolo, il poliziotto apre la portiera, siamo fottuti. Panico al massimo, urlo “LA STIAMO RIPORTANDO A POSTO”. Il poliziotto ci squadra, ci pensa. So che trenta secondi sembrano tanti, ma giuro che è stato quello il tempo che ci ha messo per decidere cosa fare. Intravede le macchie marroni che si formano nelle nostre mutande, percepisce la disperazione nell’aria, ci ordina di poggiarla per terra lì dove ci troviamo, tornare subito a casa e dimenticarci della faccenda.
La missione originale era un’altra, ma non vogliamo certamente disobbedire al braccio armato della legge; posiamo la panchina e la polizia va per la sua strada.
Ci guardiamo negli occhi. Ancora una volta non c’è bisogno di parlare, stiamo pensando tutti la stessa cosa. Ormai siamo più vicini al pub che a casa, e ci avviamo in quella direzione per riportarla al suo posto.
Ricordate che verso l’inizio del racconto avevo accennato a una storia riguardante anche due sedie decisamente stilose? Ecco, quella stessa sera cominciò quella storia, ma ahimè, la racconterò un’altra volta.
Un appassionato racconto di S.